lunedì 16 luglio 2007

Giorno Quattro, 14 Lugliodi Tommaso Labranca
Ciao.
Ve lo dico ora che magari state ancora dormendo. Sarete andati a letto mentre io già facevo colazione in una deserta Breakfast Room d'albergo, approfittando di quell'ora metafisica per prelevare dal buffet e intascare parecchie monoconfezioni di marmellata ai mirtilli. Vi sarete coricati dopo aver visto il sole levarsi sui Murazzi, soddisfatti della performance di Violante Placido come dj. D'altronde, anche un'obesa Wanna Marchi vendeva dimagranti. Viviamo l'era della non-specializzazione.
Vi dico ora ciao, tramite quest'ultima pagina di diario elettronico. A qualcuno ho detto ciao e anche grazie per sms. Perché sono un debole e detesto vedere le cose finire.
"Il momento della giornata che preferisco è il crepuscolo", disse una volta Battiato in una intervista. Anche per me è così e non solo quando si tratta di momenti della giornata, ma in ogni caso. Il crepuscolo è quel momento in cui sai che qualcosa sta per finire, ma non si è ancora spento del tutto. Il crepusolo ha la malinconia della fine, ma non la sua tragicità. Il crepuscolo del film è la colonna sonora che inizia a crescere d'intensità, ma non ancora i suoi titoli di coda. E' andarsene prima del caffè.
Allora, proprio per evitare gli abbracci e i brindisi, gli smontaggi e i titoli di coda sono andato via appena annusato il crepuscolo del concerto di Battiato. Stavano levandosi le ovazioni per l'ultimo pezzo con i Subsonica che io già scappavo dall'uscita segreta in fondo al recinto per i backstagisti.
Ho attraversato rapidamente il parco della Pellerina, passando per l'ultima volta lungo il Viale del Colesterolo. Quel Boulevard dei Grassi Idrogenati segnato da un unico infinito bazar del panino alla porchetta in grado di segnarti due volte: rivestendoti le arterie di micidiali LDL e patinandoti gli abiti di un aroma d'accampamento unno difficile da mandare via. Ma ieri sera c'erano anche le polveri sottili della malinconia che si depositavano su di me insieme all'acidità del fritto.
Sono salito sulla navetta che mi avrebbe riportato in città ed ero infelice al 75 percento. Per la prima volta avevo visto Franco Battiato dal vivo. Mai successo prima nei venticinque anni da cui lo seguo in tutte le sue fasi: la pop, la sgalambrica, la sperimentale che per me resta la più entusiasmante. Conservo i suoi otto dischi incisi tra il 72 e il 78 a fianco dei cinque dischi bianchi di Battisti-Panella perché insieme mi hanno fatto perdere tante amicizie.
Ieri sera Battiato non ha negato nulla e grazie ai Subsonica c'è stato anche l'omaggio alla stagione 72-78, con "Fetus". Senza alcun finto pudore artistico Battiato ha eseguito anche brani fin troppo ascoltati, come "Le stagioni dell'amore", che per me resta la sua canzone più bella, con suoni come i raggi di sole al tramonto che colorano le nuvole. O i pezzi de "La voce del padrone". Lui che potrebbe permettersi di snobbare il pubblico eseguendo composizioni wagneriane con cori russi, si è messo a cantare di palome e centri di gravità permanenti. Perché mi meraviglio di questo? Perché ricorderò sempre di aver assistito nel 1999 a uno dei primi showcase dei Verdena, dei quasi-Nirvana di origine camuna, tipici figli di quella emulativa musica finto-rock la new italiana il free jazz punk inglese. Avevano un repertorio di 7 pezzi a dir tanto. E solo alla fine, quasi minacciati dallo scarso pubblico, il cantante annunciò con disprezzo che si sentivano costretti a eseguire Valvonauta, la loro unica e anche abbastanza limitata hit, uscita solo un mese prima. Ah l'umiltà degli artisti!
Quando arriva la fine cerchi di non fare bilanci, ma non riesci a non pensare a quanta fatica si spreca nel cercare i suoni, creare arrangiamenti, sondare filosofie e inventare nomi. Cosa arriva al pubblico? Seduto davanti a me sulla navetta c'era un trentenne con una sbiadita maglietta De Puta Madre portata senza alcuna vergogna per il tragico ritardo rispetto ai crudeli tempi delle mode. Chiamava un amico nella Locride con un Nokia ormai di valore archeologico e cover dai disegni tribali scrostati. "Sono a Torino, a un concerto. C'erano i Subbesonica!"
Era felice nel dirlo, così come sarà stato felice nell'ascoltarli. Noi lì a posare da intellettuali e artisti, a interrogarci per quattro giorni su Berlino e lui, estraneo a tutto, racchiudeva la sua gioia esplosiva in quell'epitesi che nei dialetti meridionali evita le terminazioni ossitone dei monosillabi e crea strani incroci tra un Subbuteo e una band torinese. Io sulla navetta a pensare alla tristezza della fine e lui che ogni giorno conosce solo gli inizi di piccole felicità scoppiettanti.
Allora ho deciso che avrei fatto terminare questa breve avventura torinese qualche ora prima di quel momento, in un'isola della giornata in cui ero stato felice. Ho abbassato lo sguardo sul mio orologio, una riproduzione del monoscopio televisivo che desta invidia in chi lo vede. Era mezzanotte e mezzo. Ho iniziato a far ruotare la corona per riportare indietro le lancette.
Ecco le ventitré: mi sposto perché una petulante spettatrice si lamenta con il suo abbronzato accompagnatore di come il pubblico non reagisca con entusiasmo alla musica e inizia a urlare con voce stridula.
Ecco le ventidue e trenta: l'inizio del concerto di Battiato. Sono davanti al suo camerino, in attesa che mi intervistino per un documentario su Traffic e lui passa a pochi metri da me e c'è Sgalambro che sulla porta guarda fuori il cielo come l'omino nelle vecchie casette segnatempo.
Ecco le ventuno e quarantacinque: sul palco ci sono Anthony and the Johnson, un act forse troppo delicato per una situazione di massa come il festival, ma comunque suggestivo.
Ecco le diciannove. E' l'ora dell'imbarazzante performance di Meg ai Giardini Reali nel tardo pomeriggio. Un successo su tutti i fronti per Meg: impegnata doppiamente come lettrice di testi di Saviano e cantante, non è riuscita a far bene nessuna delle due cose. Serve talento anche in questo.
Ecco le diciassette. Sono in via Garibaldi e torno a passo spedito in albergo. Ero uscito poco prima per andare a visitare qualche libreria antiquaria di via Po attratto dai volumi con xilografie seicentesche che non potrò mai permettermi. Mi sono poi fermato a uno dei banchetti che vendono volumi usati perché in uno scatolone seminascosto c'erano due vecchi Classici di Walt Disney e il numero 696 di Topolino del 30 marzo 1969. Li ho comperati per cinque euro. Per questo sto camminando di corsa.
Voglio tornare al più presto in albergo, spegnere il telefono, starmene da solo. Non condivere con nessuno questa mia piccola gioia inutile. Non pensare al giorno che finisce. Prendere l'ultima albicocca rimasta nel frigobar. Mettermi sul letto. Lasciarmi avvolgere dal flusso malefico dell'aria condizionata a 18 gradi. Non pensare a Traffic che finisce. Perdermi nella lettura del numero 696 di Topolino. Tornare a un pomeriggio del marzo 1969. Non pensare alle cose che finiscono. Tornare a quando "tutto-questo" doveva ancora cominciare. Mercoledì scorso o 38 anni fa, non ha importanza.

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